Le vacanze sono ormai un ricordo che sbiadisce tra la pelle abbronzata e le email da leggere. Ma c’è un elemento che non ci abbandona: l’acqua. Il mare che ci ha accolti, i fiumi che abbiamo attraversato, i ghiacciai che ci hanno fatto tremare di stupore: restano dentro di noi come un’eco silenziosa. Guardare l’acqua è un gesto che lenisce e inquieta, che placa e apre abissi interiori. Non stupisce, dunque, che molti artisti contemporanei abbiano scelto proprio l’acqua come materia poetica e come strumento di riflessione sul nostro tempo.
Come scrive Gaston Bachelard in L’acqua e i sogni (1942): «L’acqua è una materia completa. Essa ci invita a un pensiero infinito».
Se c’è un’opera che racchiude il senso di leggerezza e improvvisa bellezza dell’acqua, è A Bigger Splash (1967). Una piscina californiana, una villa silenziosa, un tuffo appena compiuto: la superficie si increspa e la quiete viene sospesa per un attimo eterno. Guardandola, sembra di sentire ancora le vacanze tra le palme, quel sole che non smette mai di bruciare, la promessa di un’estate che non finisce mai.
Con Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) (1972) Hockney va oltre: un uomo nuota sott’acqua, un altro lo osserva dalla riva. È un dialogo tra due mondi, l’eterno fluire dell’acqua e la fissità dello sguardo. Il quadro, battuto da Christie’s nel 2018 per oltre 90 milioni di dollari, è diventato una delle immagini più iconiche del Novecento: malinconia e desiderio intrecciati. Come disse lo stesso artista, «l’acqua interessa a me di continuo. È fluida, trasparente, riflettente — e cambia ogni volta che la guardi».
Davanti a Greenland no. 63 di Zaria Forman il tempo si ferma: un iceberg monumentale, luminoso e fragile, emerge dal foglio come un gigante in equilibrio precario. Le sue sfumature azzurre parlano di un freddo che non può essere toccato, di una bellezza che sappiamo destinata a sciogliersi. Guardare quest’opera significa sentire la stessa pace che ci avvolge osservando i ghiacciai, accompagnata dalla consapevolezza che quei giganti stanno scomparendo.
In Antarctica no. 4 (2016) la superficie del ghiaccio diventa velluto e luce: il tratto morbido dei pastelli rende la durezza della natura quasi dolce, ma la fragilità resta. Le opere di Forman, in mostra in gallerie come la Winston Wächter Fine Art, non sono semplici paesaggi: sono richiami alla responsabilità. L’artista lo spiega così: «Desidero trasmettere la bellezza della natura che rischiamo di perdere, nella speranza che ispiri ad agire». È un invito a trasformare la nostalgia in impegno.
The Silent Evolution (2010) popola i fondali di Cancún con oltre quattrocento figure umane: una comunità silenziosa che il mare riveste di coralli e alghe, trasformando la scultura in barriera corallina. Nuotare tra questi corpi immersi è come entrare in una città sommersa, un’Atlantide viva e mutante. L’acqua qui non è sfondo, ma co-autrice: ogni pesce che si rifugia tra le statue e ogni corallo che vi si attacca completa l’opera.
Con Ocean Atlas (Bahamas, 2014) Taylor alza lo sguardo: una giovane donna emergendo dall’acqua regge il peso dell’oceano sulle spalle, la più grande scultura subacquea del mondo. È una figura mitica e reale insieme, che ricorda quanto la responsabilità di proteggere i mari ricada sulle nuove generazioni. «Le mie sculture sono progettate per essere colonizzate», afferma l’artista. «Sono tele su cui la natura dipinge». Qui l’arte è azione, un invito a immaginare e costruire un futuro più attento.
Con HighWaterLine (2007) Eva Mosher non dipinge né scolpisce: cammina lungo le strade di New York e Miami tracciando una linea blu, l’altezza che raggiungerà l’acqua quando il livello del mare salirà. È un gesto semplice e al tempo stesso rivoluzionario: un confine disegnato sull’asfalto che rende visibile un pericolo invisibile. Chi si imbatte in quella linea è costretto a immaginare il proprio quartiere sommerso, a sentirne la vulnerabilità.
Ma HighWaterLine non è solo una performance: è un processo comunitario. Mosher coinvolge residenti e scienziati, trasforma la linea in un atto di narrazione collettiva. «È un atto di narrazione collettiva. Disegnare un futuro per renderlo reale e dunque affrontabile», spiega. L’opera ci invita a guardare oltre il presente, a immaginare insieme soluzioni concrete: un’arte che scende in strada e diventa politica.
Ely Phenix scende sott’acqua con tele e colori, lasciando che il mare sia co-autore delle sue opere. Pennelli e pigmenti vegetali si muovono tra correnti e bolle, il sale cristallizza i colori sulla tela: le sue tele non rappresentano l’oceano, lo contengono. Ogni opera nasce a otto, dieci metri di profondità, dove la luce filtra filtrata e il tempo sembra rallentare: il risultato sono quadri che portano fisicamente traccia del mare.
Per lei l’acqua è studio e famiglia. «Racconta di essere nata con due amori, l’arte e l’immersione in mare», si legge in una sua intervista. «Con passione e determinazione è riuscita a riunire tutto ciò nel suo studio d’arte preferito, sott’acqua». E ancora: «Difficile descrivere quanto mi renda felice la mia permanenza in acqua… rappresenta l’unione del grande amore che nutro per il mare e il mio innato desiderio di dipingere». Le sue tele trasmettono esattamente questo abbraccio, un invito a immergersi anche noi.
Nell’installazione sonora Through the Bones (2010), la sound designer norvegese Jana Winderen dà voce a ciò che di solito resta inascoltato. Equipaggiata con idrofoni, registra i canti delle balene, il crepitio dei ghiacci che si frantumano, il fruscio dei crostacei. Le sue composizioni non sono solo da ascoltare: sono ambienti in cui immergersi, paesaggi sonori che ci avvolgono come l’acqua stessa. Attraverso il suono, Winderen restituisce al mare la sua tridimensionalità.
Per l’artista, ascoltare è un atto politico. «Dobbiamo conoscere il nostro ambiente per poter proteggere questo pianeta», ha detto. «Un’immagine di un iceberg che si scioglie resterà sempre a distanza, mentre un suono ti avvolge e ti circonda». La sua arte ci invita a non limitarci a guardare, ma a prestare orecchio al mondo sottomarino: un modo diverso di entrare in relazione con l’acqua e con la vita che contiene.
Apparentemente innocenti, i Swans di Marco Barotti (2016) sono in realtà otto vecchie parabole satellitari trasformate in cigni meccanici. Galleggiano in uno stagno e sembrano creature vive, ma sono fatti di rifiuti tecnologici, simbolo del potere dei mass media. Grazie a un sistema di otto canali audio, i loro “corpi” emettono suoni di respiro umano e bassi profondi: è come se quegli animali di metallo prendessero vita, fondendosi con la natura.
Il contrasto è volutamente disturbante: i cigni incarnano l’invasione della tecnologia nel paesaggio, ma allo stesso tempo ci invitano a riflettere. Il rumore che producono varia in base ai dati ambientali, trasformando l’inquinamento in danza. Come nella metafora di Eraclito, «non ci si bagna due volte nello stesso fiume», anche la nostra percezione di queste creature cambia a ogni sguardo e ascolto. Il progetto di Barotti ci ricorda che l’acqua, specchio delle nostre azioni, riflette tanto la bellezza quanto la nostra impronta.
Dalle piscine immobili di David Hockney, dove il blu diventa promessa di eternità, agli iceberg monumentali e fragili di Zaria Forman, che ci ricordano quanto il tempo sia un bene effimero; dalle sculture sommerse di Jason deCaires Taylor, città silenziose che respirano nelle profondità marine, alle linee profetiche di Eva Mosher, che hanno inciso di blu l’asfalto delle nostre città: ogni opera ci parla della stessa cosa, della nostra relazione intima con l’acqua.
C’è poi Ely Phenix, che si immerge per dipingere, lasciando che l’oceano sia co-autore del suo gesto; e ci sono Jana Winderen e Marco Barotti, che trasformano il mare in suono e vibrazione, rivelando ciò che sfugge agli occhi ma arriva al cuore come un richiamo primordiale.
Guardando e ascoltando queste opere, comprendiamo che l’acqua non è mai solo un soggetto o un paesaggio: è un archivio emotivo, un lessico universale, un organismo vivo che ci accompagna dall’inizio alla fine. Ci specchiamo nelle sue superfici, ci perdiamo nei suoi abissi, ritroviamo in essa la stessa nostalgia che ci coglie alla fine delle vacanze, quando l’estate si ritira lasciandoci un vuoto dolce e struggente.
L’acqua custodisce la memoria di chi siamo stati e l’intuizione di chi saremo. È un simbolo di trasformazione, di rinascita, di fragilità e potenza insieme. Nelle parole di Gaston Bachelard: «Chiunque entri nell’acqua ritorna al grembo materno, ritorna a un’origine segreta».
Forse è proprio questo il segreto dell’arte che nasce dall’acqua: ci ricorda che siamo fatti della stessa sostanza fluida, che dentro di noi scorre il suo ritmo millenario. E ogni volta che la guardiamo, che sia in un quadro, in una scultura, in una linea blu o in un suono lontano, ci riconosciamo.
Così, anche quando le vacanze finiscono e i giorni si accorciano, non perdiamo davvero quel senso di infinito che il mare ci ha lasciato. Lo ritroviamo nelle opere di questi artisti, che con empatia e coraggio hanno saputo trasformare l’acqua in memoria collettiva, in preghiera visiva e sonora, in un invito a non smettere mai di ascoltare il respiro del mondo.
2.9.2025