C'è qualcosa di silenziosamente rivoluzionario nel non fare rumore.
E la serata del David di Donatello 2025, tenutasi tra i viali di Cinecittà, lo ha dimostrato con la grazia austera di una neve che cade su un paese alpino.
Una cerimonia sobria, sentita, quasi timida se paragonata alle giostre hollywoodiane, e proprio per questo incredibilmente potente.
L'atmosfera? Elegante come una prima fila al Teatro alla Scala, ma senza l'ansia da outfit.
Si è respirato amore vero per il cinema. Niente gossip, pochi selfie (grazie al cielo), molte lacrime sincere e discorsi che non sembravano usciti da un algoritmo.
Poi è arrivato lui, il protagonista indiscusso: "Vermiglio" di Maura Delpero. Sette premi. Un trionfo, ma senza fanfare. Perché questo film non urla. Racconta.
Anzi: sussurra.
Appena iniziato il film, ti accorgi che devi ricalibrare il respiro. Il tempo si dilata.
Non puoi scrollare avanti. Devi rimanere. In una piccola comunità alpina del 1944, tra una madre che sa tutto ma tace, un padre che ha studiato ma non capisce, e figli
che ascoltano anche quando nessuno parla.
Nel microcosmo dei Graziadei si inserisce Pietro, disertore siciliano, che con uno sguardo smuove più dinamiche di quante ne facciano intere stagioni di fiction.
E quando si innamora di Lucia, la figlia maggiore, capiamo che qui si gioca qualcosa che va oltre la guerra: il desiderio, la libertà, il diritto alla propria voce.
La regia di Maura Delpero è uno studio sull'essenziale. Ogni gesto è calibrato, ogni silenzio è pieno.
La montagna non è sfondo: è personaggio. E la macchina da presa non entra mai invadente, ma osserva. Si nasconde. A volte sembra chiedere permesso.
La fotografia è da incorniciare. Ogni inquadratura è un omaggio alla luce naturale, ai colori spenti della guerra, ai contrasti interiori.
Elio Germano è come sempre impeccabile. Ma a rubare la scena è Tecla Insolia, che con l'arte della gioia si prende anche l'arte del magnetismo.
Lucia non parla molto, ma quando lo fa, sembra che anche il bosco si fermi.
Il David alla carriera a Pupi Avati ci ha ricordato che fare cinema significa anche (e soprattutto) saper invecchiare bene.
Il premio speciale a Ornella Muti è stato un inchino alla bellezza non addomesticata.
Anche perché in un Paese dove spesso si premia il rumore, premiare la competenza è quasi un atto poetico.
C'è stato anche qualche momento più leggero. Tipo quando un attore ha ringraziato la sua ex "perché senza di lei non avrei sofferto così tanto da scrivere questa
sceneggiatura". (Geniale. Freud avrebbe approvato.)
E quando un giovane regista ha ammesso di aver usato il premio come scusa per non andare a cena dai suoceri. ("Lo giuro, mamma, sono ai David.")
Se "Vermiglio" ha dominato, è anche vero che la serata ha mostrato un panorama variegato e pieno di talento.
Tecla Insolia, Miglior attrice protagonista per L’arte della gioia, ha confermato che l'intensità non ha bisogno di urla: basta uno sguardo, e mezzo respiro.
Elio Germano, Miglior attore protagonista per Berlinguer – La grande ambizione, ci ha regalato l’ennesima prova di come si possa raccontare la politica con l’umanità di un
padre, la fragilità di un uomo.
Valeria Bruni Tedeschi, Miglior attrice non protagonista, ha portato in scena la sua consueta eccentricità raffinata, perfetta per il ruolo di madre anticonvenzionale in L’arte della gioia.
Francesco Di Leva, Miglior attore non protagonista per Familia, ci ha fatto ridere, commuovere, riflettere. Spontaneo, viscerale, vero.
Margherita Vicario, Miglior regista esordiente con Gloria!, ha messo in scena un musical ironico, pungente e fresco. Una ventata d'aria nuova che profuma di talento, ma
anche di intelligenza.
Il Miglior film internazionale è andato a Anora di Sean Baker. Una scelta coraggiosa, e non scontata, a dimostrazione che l'Accademia italiana guarda sempre più lontano.
Il documentario Lirica Ucraina di Francesca Mannocchi ha vinto nella sua categoria: un lavoro necessario, urgente, che mostra come l'arte possa dare voce anche dove la geopolitica tace.
Infine, Diamanti di Ferzan Özpetek ha vinto il David dello Spettatore. Perché a volte, anche la bellezza che piace a molti merita un applauso in più.
La serata del David 2025 ha ricordato a tutti noi perché amiamo il cinema italiano: perché sa raccontare il dolore con delicatezza, la storia con empatia, l’attualità con stile.
Solitamente, non sono un’estimatrice delle pellicole italiane né dello stile che, a mio parere, si è spesso adagiato nei decenni su una commedia dell’equivoco ormai datata,
diventata caposaldo dello “stile all’italiana”.
Ma Vermiglio — e in generale tutto il premio David 2025 — ha completamente scardinato la mia opinione, ormai ancorata a vecchi stereotipi.
E poi c’è stato il tappeto rosso, lento ed elegante, quasi orchestrato. I David di Donatello 2025 sono stati lenti sì, ma non snervanti: quella lentezza densa, armoniosa, che
invita a prendersi il tempo.
Il tempo per sentire, non solo con l’udito, ma con il cuore. Il tempo per stare, restare nel momento. Un momento che ha raccolto attimi che echeggeranno nel tempo.
Un attimo di cinema. Un attimo d’Italia.
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9.5.2025